
Le sfumature ci sono tutte. Dalla trap all’hip-hop passando per il rock e il folk d’autore. I colori sono quelli del canto neomelodico ma anche di un approccio internazionale dentro suoni che – a mio sentire – tanto devono all’America. Federico Bottini, aka MyalOne manifesta tutto se stesso dentro un esordio glitterato e di fascino come questo disco dal titolo “Due anime”: è sicuramente l’amore da intendersi ad ampio raggio quello che va in scena sotto i riflettori della sua forma canzone. C’è tanto da dirsi e da raccontarsi…
Quanta America c’è dentro questo modo di concepire la forma canzone?
Parecchia, ma è un’America metabolizzata, non copiata. Sono cresciuto ascoltando Kanye che trasforma i soul-sample in architetture futuristiche, Kendrick che fa di ogni barra una pellicola, Beyoncé che piega il pop al gospel e viceversa. Quel senso di “canzone-manifesto” mi è entrato sotto pelle: strofa che racconta, hook che scolpisce, bridge che spalanca un altro orizzonte. Poi però ci metto la metrica italiana, la malinconia melodica di Battisti, il sapore mediterraneo che si annusa a chilometri. È un ponte: America come scuola di libertà formale, Italia come vena emotiva che non molla mai il cuore.
Rap e hip-hop sono dietro l’angolo sempre o sbaglio?
Hai centrato il punto: il rap è il mio dialetto madre. Anche quando canto, sotto c’è un flow che detta la respirazione, incastra le sillabe, lascia silenzi strategici. Non faccio “quote-rap” per dovere di stile: è il filtro con cui leggo il mondo, la lente che mi ricorda di dire la verità senza sugar-coat. Quindi sì, l’hip-hop è sempre lì, pronto a uscire con una cassa dritta o con una quartina sputata in faccia se serve.
I suoni della drilling non si fanno attendere. Come hai lavorato alla produzione artistica?
Sono partito dall’808 scuro tipico della drill: glide lunghi, sub che vibra nelle ossa. Ma l’ho vestito con strati di synth in modalità “colonna sonora” e con micro-campioni di corde pizzicate all’alba – registrate in un casolare sul lago per catturare l’aria vera. Le hi-hat triplate? Le ho messe in dialogo con il cajón per dare un respiro umano. In cabina ho inciso prima la take cruda, poi l’ho sporcata con pitch-shift minuscolo e reverb cortissimo: volevo che si percepisse la paranoia urbana, ma con uno spiraglio di luce. La produzione, per me, è chirurgia emotiva: togli, ceselli, finché ogni suono regge una parte del racconto.
Secondo te tutto questo deriva anche da scenari di periferia e di territori ai margini?
Assolutamente. La drill nasce a Chicago South Side, ma le “periferie” sono uno stato mentale prima che un CAP. Io vengo da una provincia che vibra tra capannoni dismessi e ville affacciate sull’Adda: contrasti forti, sogni enormi chiusi in spazi piccoli. Quell’energia borderline – volere di più, urlarlo perché sennò esplodi – è la stessa che senti in un pattern di hi-hat drill. Racconto quei margini perché lì la vita è nuda, senza scenografie di cartone, ed è da lì che si progettano fughe e rinascite.
Nel video si contrappone ad un suono industriale scenari decisamente naturali e veri, un pianoforte, la danza… che contrasto è? Qual è il messaggio che c’è dietro?
Volevo mostrare il dialogo fra due anime: la città-fonderia dove il cuore si corrode (ferita, rumore, ruggine) e la natura-cura dove il tempo rallenta e sanare diventa possibile. Il pianoforte sul greto del fiume non è un vezzo estetico: è un simbolo, il codice binario che si rompe per far posto al respiro analogico. La danzatrice che si muove fra lamiere e glicini rappresenta la capacità umana di trasformare lo spazio ostile in palcoscenico di bellezza. In fondo il messaggio è: sì, viviamo in un’era industrial-digitale, ma la salvezza è ancora organica. Metti un seme di verità dentro un beat di ferro e vedrai fiorire qualcosa che l’acciaio non può cancellare.